Talamone, piccolo ma solido porto di fiorentini, senesi, genovesi e catalani

Talamone con il suo castello, costruito su un promontorio e una rupe, vigilò per secoli sul mare antistante e sul proprio antico porto. Nonostante appartenesse al territorio di Grosseto, nel medioevo fu dominio dei senesi. Ospitò tuttavia pochi abitanti, restando luogo di approdo di truppe militari, di intraprendenti mercanti e di ribelli o pirati.
Nel “giugno del 1326 vi giunsero da Provenza sopra 10 galere 400 soldati di cavalleria, i quali passarono a Firenze col duca di Calabria. Una nuova visita ebbe Talamone nel 1328 da Piero d’Aragona allorché d’accordo con Lodovico il Bavaro investì e prese cotesto porto e castello” – scrisse il Repetti nel suo Dizionario, alla voce dedicata.
In ambito commerciale conservarono sul porto una certa autorità anche i fiorentini che dal 1357 lo preferirono a Porto Pisano e stabilirono un trattato con i senesi. Operavano già dall’inizio del secolo con i loro inviati a fianco o in concorrenza con i genovesi, come ricordano le scritture di noleggio e le ricevute di pagamento per trasporti marittimi.
Nel 1302 – riporta una carta – Gino del fu Palmieri da Panzano sindaco e procuratore del comune di Firenze, interrogato in presenza di Pagno di Carbone e di Nutio di Giovanni della società dei Bardi, ‘confessò’ che “Nicholus” suo socio aveva avuto dagli stessi committenti Pagno e Nutio 1098 moggia e 7 staia di orzo, a lui consegnato nel porto di Talamone tramite la nave chiamata San Siro, i cui patroni erano Niccoloso dei Neri e Giovannino “de Albario” di Genova.
Nel 1323 invece il barcaiolo Corradello del fu Barone di Castiglione della Pescaia subì l’interrogatorio da parte di certi notai su richiesta di un altro agente del comune di Firenze, Naccio del fu Ranieri. Giurò sui Vangeli e disse che, andando per il mare da Talamone fino al luogo che si diceva Barcareccio, nei confini della città di Grosseto, sulla sua barca affittata e caricata con grano dal suddetto Naccio, s’imbatté in Corradino Doria con quattro galee “et cum extrinsecis de Ianua” (con i fuoriusciti di Genova). Per impedire che il Doria e i suoi uomini gli rubassero il carico, il barcaiolo pagò loro dieci fiorini d’oro, presi a prestito da Comuccio del fu Ciano da Piombino proprio “pro redemptione grani”. Finì bene perché l’agente fiorentino gli riconobbe l’emergenza e lo rimborsò a Castiglione della Pescaia.
La pirateria allora era un fatto abbastanza comune. Anche in altre carte si trova come i genovesi con le galee solcassero di frequente il mare antistante le coste di Toscana e ottenessero un facile bottino a spese dei piccoli padroni che trasportavano merci per conto di Firenze, Pisa e altre sue città.
Tuttavia erano eventi che accadevano secondo necessità e nei momenti di competizione. In tempi più tranquilli i genovesi non si tiravano indietro a fare affari con i fiorentini. Nel 1362 Bartolomeo di Niccolò da “Apino” di Genova, in presenza del giudice Filippo, emise ricevuta di riscossione di 100 fiorini pagati dai noleggiatori Bartolomeo di Gherardo degli Albizi e da Giovanni di Guidotto sindaci e procuratori del comune di Firenze per il nolo di una galea da 30 banchi chiamata Sant’Antonio e Santa Caterina in quel momento stante nel porto di Talamone.
Importanti frequentatori del luogo furono infine i catalani.
Nel 1341 Gugliemo Porretta e Bernardo di Olivero da Maiorca, padroni di una nave chiamata Giuliana, confessarono di aver ricevuto da Matteo Silvestri socio e procuratore degli Acciaioli di Firenze 2300 fiorini per noleggio e per trasporto di lana e di mercanzie da Maiorca a Talamone. Specificarono anche che i destinatari erano lo stesso Matteo, e poi Eustagio di Bonaguida e Giovanni “Thechie” di Tolosino suo socio, “Thorino” di Baldoso e soci, Lippo e Mico di Guidalotto e soci e Duccio di Checco e soci.
La carta fu rogata proprio a Talamone alla presenza di testimoni ‘internazionali’: “domino Iacobo de la Croce” di Genova, Andreotto del fu Orlando di Genova e tre fiorentini: Cione dei Guardi, Giovanni del fu Ventura e Pucio del fu ser “Donsii”.
Nel 1411 invece i catalani subirono gli effesti negativi delle rinate guerre italiche.
Matteo di Granello e Pasquale di Ciuto da Tortosa, Guglielmo Moraga da Maiorca, Pietro di Mulino di Giusa (o Guisa) da Cardona, Nicolò di Bonetto da Castiglione “Inpunarum”, Beringhieri di Giberto da Barcellona e Gugliemo “Dotri” da Perpignano si dichiararono creditori di 16000 fiorini nei confronti del comune di Siena in quanto avevano subito il furto di lana e altre cose da parte di “gentes armata” delle galee di Ladislao I re di Napoli e dei genovesi presso Talamone, “quando dicta terra et portus fuerunt occupati de dicto mess. per dictam armatam ...”.
L’occupazione dei nemici, desiderosi di staccare Siena da Firenze, era avvenuta nel 1410 a seguito di una vittoriosa battaglia navale avvenuta proprio a Talamone contro la flotta messa su dai fiorentini. Ma nel dicembre le due città toscane si erano riprese il castello e il porto, e poco tempo dopo i catalani avevano potuto esigere il loro credito. La pergamena, che riporta puntigliosamente le cifre spettanti a ciascun mercante, venne scritta nella bottega dei giudici e notai di Siena, presenti come testimoni tre di questi pubblici ufficiali del tempo.

Paola Ircani Menichini, 27 aprile 2023.
Tutti i diritti riservati.




L'articolo
in «pdf»